Faiddi di ciatu (Libro)

Faiddi di ciatu

                                                                                        di Vincenzo Aiello

   Prefazione

   C’è un particolare che distingue il modo di comunicare con la lingua italiana rispetto a quello della lingua siciliana e sta nel servirsi in quest’ultima del mimo, della gestualità delle mani, dell’espressione del volto, dell’inflessione e della modalità tonale della voce che fa sì che un gesto o una sola parola compendia ciò che per  la lingua italiana occorre per rendere compiutamente fruibile un concetto. Una lingua quella siciliana che, formatasi nel tempo nel crogiolo della greca, latina, araba, francese e spagnola, ha assorbito solo quelle parole che ben si adattavano all’uso quotidiano, divenendo il linguaggio del popolino (in latino vulgus) progenitore   della lingua detta volgare. Sappiamo pure, per chiudere questo inciso, che sebbene Dante nel suo “De vulgari eloquentia”, riconoscesse il volgare siciliano propedeutico alla lingua italiana, l’isolamento a cui fu costretto il Meridione dalla dominazione aragonese-spagnola, portò quello toscano alla supremazia su tutti gli altri e alla nascita della lingua protoitaliana. 

   A rimarcare la supremazia della comunicazione espressiva della lingua siciliana ecco pervenire a suo soccorso una raccolta del poeta Vincenzo Aiello con la pubblicazione di “ Faiddi di ciatu” destinata alla difesa e alla conservazione di una lingua unica nel panorama delle lingue neolatine. Una raccolta che nel suo intento non è volta a temporizzare gli stati d’animo dell’autore, quanto a trasmettere squarci e momenti di vita altrimenti destinati all’oblio e che il poeta  recupera attraverso il mezzo più consono a lui e alla sua indole: la poesia. Poesia che potremmo arditamente affermare passa dall’epica familiare alla “elegiaca” metrica, dalla comunicativa alla lirica amorosa. E questo sia servendosi di versi liberi  che di quelli composti con rime alternate e incrociate. A questo riguardo non è inopportuno ricordare come il sonetto, fra le altre forme liriche, abbia avuto origine in Sicilia per merito di Jacopo da Lentini (vi nacque anche il filosofo Gorgia), appartenente a quella “Magna Curia” creata dallo “Stupor mundi” Federico II, imperatore e re. Vincenzo Aiello tra le tematiche esposte e che analizzeremo in queste note, esamina “in primis”, da eclettico studioso, la genesi di una poesia. Non basta, afferma, guardare “dintra un ciuri…dintra l’occhi stanchi d’un piscaturi…” per scovarla (v.”Ti circavu”) anzi spesso “ comu du ziti… penna e fogghiu jancu”… si votanu li spaddi e nuddu e nenti ci po’…” e questo fino a quando non arriva un gesto di pace: l’ispirazione. L’ispirazione si sa nasce da una emozione sia che venga da fuori sia che nasca da dentro e che togliendo serenità all’animo provoca una commozione, parola il cui verbo commuovere deriva, non a caso, dal latino cum-movere (suscitare un mutamento). 

   Chi legge una poesia con piglio critico, ricerca in questa tre cose: cosa si evidenzia dal contenuto, con quale forma è scritta, se dà emozioni. Le poesie di Vincenzo Aiello rispondono positivamente a tutti e tre i quesiti. E perché descrive episodi di vita reali d’un tempo, e perché si serve di un lessico che trae le sue radici dalle culture del tempo e infine perché suscitano e rimescolano l’animo. Le trentadue liriche di “ Faiddi di ciatu ” entrano tutte nell’intima sfera del lettore facendolo partecipe del contesto come fosse una persona fisicamente presente all’accaduto, quasi un testimone occulto o, in essere, uno spettatore occasionale. E’ chiaro da subito che ci si trovi davanti uno scenario completo e complessivo. A volte al critico letterario bastano per recensire una raccolta, otto-dieci poesie per potere comprenderne la fattura e la qualità. In “ Faiddi di ciatu ” è singolare invece come ci si trovi davanti a liriche talmente cariche delle tre motivazioni da rendere imbarazzante stabilire un ordine di primato. 

   Ma ad offrirci un supporto ci sovviene però la scelta delle tematiche svolte dall’Autore. Infatti, scontate le diverse poesie tratte dal sociale (v. Lu travagghiu), dalla natura (v. La prijera di la sira) o dagli occasionali accadimenti (v. Aylan ), un ceppo più che robusto ci viene offerto dai ritagli della memoria, dai ricordi del tempo che fu e che rimanda alla vita vissuta ora tra le mura domestiche ora per la strada, proscenio e quinte riservati ai ragazzi e ai loro giochi. Fotogrammi di scene dove “assummanu ricordi spirtusati d’’a camula d’’u tempu” e che, ammette il poeta, “spremu sutta la macina d’’a menti” (v. Fijuri stinciuti). Ricordi che a volte, sperando di vederli ritornare come farfalle colorate  “ m’accuntentu di parpagghiuna affumati…jurnati assammarati di malincunia” (v. Filinii di pinsera). Ed è questa malinconia che lo ispira a scrivere le “elegiache” “Corso Butera 333” e “ Via Sciara”. E’ qui che i versi trasmutano verso un lirismo a cui accennavamo, dove sembra di ascoltare l’aedo d’un tempo, che recita al suono di un’arpa, avvolgendo i lettori con un pathos palpabile. Sono questi due acquerelli di struggenti momenti evocativi come quello  nel conservare “ ’u punseddu e ’u zappuneddu “ del padre  o in quell’altro nel rivedere nel vicolo “ filari di linzola stisi o suli ” insieme a  “ fimmini cu l’occhi scaccaniusi ca… s’asciucanu ’i capiddi ”. E non solo. Frasi “ nzuppati ” di lirismo li riscontriamo in ..” lu suli…pì guardiani lassò ddà capu quattru pizzami di negghi rusciani … sulu ’u merru..vistutu a luttu pi com’era…” (v. La prijera di la sira) oppure in…” un leccu di campani alliscia li canali di tutti ’i casi…e u lampiuni d’’a vita mmiriacu d’assoliu vecchiu, arresta addumatu a fari lustru nte gnuni..” (v. Scalìu mmensu li pinsera), o ancora in…” mentri vi jucati a li carti l’urtimi raggi ’i suli aspittannu chi la sira arriva e astuta ’u jornu…” (v. L’urtimu cipressu), tanto per citarne alcuni. 

     Ma un angolo non secondario il poeta lo riserva al comune vivere d’un tempo come in “ L’opira d’’i pupi ”, in “ La festa di li morti ” e “ Dunn’eru a finiri ’i picciutteddi? ”, non tralasciando un riguardo particolare a “ Li vecchi di la Baharia ” sulle cui fronti, quali righe di uno spartito musicale, sono scritte le storie della Bagheria al tempo “ dell’oro dei limoni ”. Non manca infine anche un riferimento a “Li balati d’’a Vucciria”…” ci vosi jiri arreri avanturazza, e cci truvai sulidda chi chiancìa, ’na funtanedda menzu di la chiazza..”. Lacrime che non sono solo della fontanella  per  un passato che sa di epico, ma anche di quelle della madre che piange la perdita del suo amato sposo (v. L’occhi di me matri). Vogliamo chiudere queste note, rifacendoci al dialogo molto simile ad “ A livella ” di Antonio De Curtis (Totò), nella poesia “Sicilianu e ’talianu”. Qui tra due figure “ antropomorfe ” raffiguranti la Lingua italiana e quella Siciliana si accende una disputa sulla primazia della lingua e dove, mentre la prima sdegnosamente apostrofa la siciliana prevedendone la scomparsa data la sua arcaicità, questa risponde insultandola e rimproverandone lo snobismo e l’ancheggiare  da prostituta, visto che, completiamo noi, non si mantiene pura, giacchè disposta ad accogliere con spudoratezza termini anglofoni e barbarismi in genere. In effetti anche la siciliana, come prima accennato, accoglieva termini dei popoli che la conquistavano ma li adattava alle sue esigenze dialettali storpiandone, pro-domo-sua,  la pronuncia ma non  la semantica. Il Poeta rifugia da tutto ciò. Il suo è il linguaggio parlato da sempre dai “ bagarioti ”, dal nome dell’antico villaggio della “Bagarìa”,  integro nella sua purezza e nella sua integrità senza i neologismi dei vocaboli italianizzati.

   Vincenzo Aiello con questa raccolta, rispetto alla precedente  “ Cori ri petra ”,  fa un salto di qualità perché alla denuncia contro una società consumistica che ha prodotto una cultura essenzialmente egoistica, superficiale e atarassica (priva di emozioni), unisce un aspetto dal sapore tardo-romantico. E’ pur vero che spesso ricordando il “ buon tempo antico ” ci si dimentica delle condizioni della vita magra d’allora, per assonanza a “ La vita agra” di Luciano Bianciardi, che per prima narra della iniziale perdita dei valori. Ma ci si intende bene quando nel confronto barattiamo preferendola, quella magra d’allora con quella del vivere d’oggi dove il futuro annega nell’incertezza e naufraga nel mare dei sentimenti obliati sia dalla rincorsa del tempo che dalla frenesia dell’arrivare e, se vogliamo, perfino in quell’anticipare la vita in quei ragazzi che la ricercano col trovarsi poi a stringere il nulla visto che di questa hanno già svelato ogni mistero. Vincenzo Aiello con “Faiddi di ciatu” pone un’attenzione, un interrogativo su cui disquisire. Il passato, afferma, è una risorsa a cui attingere per mettere un riparo al dissesto dell’animo corrotto dal tempo e dal progresso (v. U tisoru) e non a caso un suo verso, a sottolinearne il processo negativo, recita: “ stamatina ’u suli spunta di punenti… a firmari lu tempu…ca a parturutu troppu cosi tinti” (v. Scalìu mmemnzu li pinsera).  A tutto questo degrado il Nostro, tra tutti i valori indispensabili per dare decoro alla vita, dispiega il valore della famiglia. E’ questo un vessillo, uno scudo forgiato nella fucina del tempo, coi metalli inossidabili dell’affetto ricevuto dai genitori, poi traslato da lui nell’esaltazione delle doti della moglie e nell’educazione dei figli ai quali spera di poter trasmettere i consigli avuti dalla madre compreso non ultimo, il rispetto per i vecchi (v. Voscenza assa benedica). 

  In definitiva il richiamare questi valori offre uno specchio per riflettere, un guardare indietro verso quello che s’è perso e non è cosa da poco l’intravedervi la perdita di se stessi, la scomparsa di un mondo. E’ questo il compito che si pone “ Faiddi di ciatu ”, un argomento, un appiglio con cui dimostrare come un valore possa esistere e resistere in chi sa ancora trovarvi una emozione, un sentimento dentro il quale riscoprire la bellezza della vita, o come dice il poeta, il ritorno a guardare il cielo mentre “ ’a luna parraciunìa c’’a prima stidda” o l’aver voglia di riappropriarsi del tempo “ stasira vogghiu passiari senza prescia” (v. Assapurannu ciuri antichi).  La poesia dialettale di Vincenzo Aiello si pone quindi come un testamento linguistico dove ogni parola è la parola parlata (difficilmente scritta) dai “ bagarioti” e “ Faiddi di ciatu” ne è un esempio costituendo nel suo insieme  una diga preziosa  da sorvegliare con cura a salvaguardia di una lingua che vivrà finchè ci saranno siciliani come Lui, pronti a difenderla con perizia e amore. 

                                                                    Giuseppe Bagnasco

Postfazione  Faiddi di çiatu

“Nta ogni seculu, li pueti veri chi nascinu, si ponnu cuntari ‘n capu li idita di na manu e…  a li voti, assuvecchia un iditu”.

Queste le parole del grande poeta Ignazio Buttitta, che certamente non faceva sconti a nessuno: o eri un poeta, oppure eri soltanto qualcuno che si diletta a scrivere, come tanti altri… Affermazione che mi trova in perfetto accordo con il Vate Bagherese.

Baharia, questa Terra che ha partorito artisti del calibro di Buttitta, appunto, di Tornatore e, mi sento di affermare, anche di Vincenzo Aiello.

In un’epoca in cui si è persa la concezione di poesia, dove chiunque sappia incolonnare parole si arroga il titolo di poeta, dove ogni giorno grazie ai social-network nascono come funghi tanti improvvisatori di versi, Vincenzo Aiello è invece un Poeta vero, uno di quelli che “Si cuntanu nta li idita di na manu”.

Ho conosciuto Vincenzo una decina di anni fa circa, grazie al “Forum dei poeti” dell’amico Nino Barone. Sin dall’inizio ho apprezzato i suoi versi, perché sono un vero concentrato di emozioni e sensazioni.

Ma la vera sorpresa è stata quella di conoscere Vincenzo personalmente e, se l’artista mi aveva colpito, l’uomo mi ha conquistato: gentile, umile, sincero, privo di quella altezzosità che molti autori del suo calibro mostrano con arroganza. Al primo impatto ti appare introverso e silenzioso, ma poi scopri che è dotato di un umorismo straordinario, direi di stampo inglese, mai eccessivo, ma all’occorrenza pungente e arguto.

Insomma, Vincenzo Aiello è proprio uno di quei poeti in cui l’equilibrio uomo/artista si mantiene sempre costante.

Tempo addietro ho avuto il piacere di scrivere una breve nota sulla sua poetica e in quell’occasione mi sono permesso di definirlo “il poeta dei tre feudi”: testa, cuore e pancia.

Perché è con la testa, con il cuore e con la pancia che Aiello scrive le sue poesie e perché sono testa, cuore e pancia del lettore a rimanerne coinvolti e piacevolmente travolti.

È di parole che sono fatti i versi, ma bisogna essere un Maestro, un giocoliere quasi, affinché quei versi possano definirsi poesia.

Aiello conosce benissimo la forza delle parole, il loro effetto, ma la sua non è mai una poesia costruita: è ispirazione allo stato puro, al servizio di un poeta che ama e padroneggia la sua lingua madre, quel siciliano bahariotu, ricco di termini che impreziosiscono le sue opere.

Vincenzo è come un ingegnere di altri tempi, uno di quelli a cui non serve la laurea, ma che è in grado perfettamente di dar vita ad una vera opera d’arte. È al tempo stesso architetto e muratore, abile nella progettazione e nella definizione: come i palazzi di un tempo, i suoi versi sono una scoperta continua, ricchi di “passaggi segreti”, di affreschi e, a ogni piano, a ogni porta che apriamo, si svela un particolare che ci colpisce con stupore.

Le sue poesie non sono mai banali e scontate, né è possibile rinvenire cedimenti strutturali in grado di intaccarne la solidità, e questo grazie alla costanza di lirismo e di intensità presenti in ogni verso.

Ma è nel verso finale di ogni sua poesia che Vincenzo dà il massimo: come quel palazzo che ha anche un bellissimo terrazzo con un panorama mozzafiato, così quelle parole ti colpiscono come un pugno allo stomaco e grazie a loro puoi volare con la mente.

Non è semplice definire la poetica di Aiello, perché i temi sono tanti e trattati in modo variegato: dagli affetti familiari, alla nostalgia del passato, alla consapevolezza del trascorrere inesorabile del tempo, all’amore, all’intimismo personale e universale, all’attaccamento verso la sua lingua madre.

Aiello è per certi versi un poeta neorealista, con sfumature ora romantiche ora crepuscolari, oserei dire.

Come scriveva Guido Gozzano, non sappiamo più assaporare  “le piccole cose di pessimo gusto“:

“Picchì avemu tutti ‘u fuareddu?

Tutti assicutamu lu tempu”

“stasira vogghiu passiari senza prescia”

“mentri ‘u suli

scinni nto curaddu

e lassa ‘u postu a luna”…

Il tempo! In un’effimera illusione crediamo di possederlo, gli corriamo contro, quasi con sfida, ma…p’arrivari dunni?! Solo agli elementi come il sole e la luna è concessa l’eternità e di questo il poeta ne è profondamente consapevole. Inutile correre comu surci addumati, tanto, alla fine, sarà sempre il tempo a fare da tiranno e nessuno di noi potrà sfuggire al bacio della Dama nera.

Nelle poesie di Aiello si nota spesso una simbiosi con la natura, rinvenibile in elementi quali animali o alberi. Così, quando sembra limitarsi a descrivere la spettacolarità di un tramonto, in realtà sta descrivendo uno stato d’animo viscerale e intimistico.

Si sente allora vivo L’urtimu cipressu, quell’albero una volta maestoso, che sembrava non temere il tempo e al quale il tempo, invece, ha tolto qualcosa. Ora, Aspittannu chi la sira arriva e astuta ‘u jornu”: l’ultimo! E chi potrebbe essere quel vecchio cipresso se non l’uomo, che tanto grande si sente, sebbene la fugacità della vita poi ne mostra tutte le sue fragilità? Troppo spesso l’uomo si accorge che la vita è passata senza aver compreso che se ne stava andando e, quando non riuscirà più a correre contro il tempo, non potrà fare altro che attendere l’ultimo giorno.

“Aiu nto cori una ‘i sti matini

di fari un cornu o tempu ca è tirannu

p’un jornu lassu machina e travagghiu

e chiacchiariu… passiannu cu me nannu.”

Qui, alla consapevolezza del tempo padrone, si affianca la speranza, l’augurio di un qualcuno che un giorno possa dedicargli alcuni momenti e attenzioni, quelle stesse attenzioni che lui ora vorrebbe offrire a u vicchiareddu.

Speranza che vedo, invece, scalfirsi nella poesia dal titolo Dunni eru a finiri li picciutteddi?: potrebbe sembrare una semplice denuncia dei tempi che cambiano, del progresso che avanza o della tecnologia che ci ha alienati, ma poi traspare il dubbio, piomba lo sconforto, perché forse un giorno i giovani non potranno avere quella sensibilità che il poeta oggi possiede.

La freddezza della strada vuota, senza più bambini che giocano e schiamazzano, altro non è che l’anticamera della freddezza che, secondo il poeta, caratterizzerà la società di domani.

C’è poi il tema dell’amore, trattato in modo originale e con una semplicità genuina e autentica:

“La penna e ‘u fogghiu jancu

su’ comu dui picciutteddi ziti

l’unu avi bisognu di l’avutra

e si cercanu notti e jornu”.

Bellissima questa analogia del foglio bianco, purezza della donna, che “sporcato dall’inchiostro” non perde il suo candore, perché dall’unione di inchiostro e carta nasce la poesia, una nuova creatura. Esiste del resto poesia più grande dei figli?

Aiello cerca e trova la poesia in ogni dove: “dintra un ciuri; nta li balluna d’a scuma d”u mari; dintra l’occhi stanchi d’un piscaturi…”. Solo l’animo di un vero poeta può essere in grado di vedere poesia anche in quel merlo vistutu a luttu, ma circò abbentu ricitannu la prijera di la sira.

La sera non rappresenta solo l’amara fugacità della vita, perché al tempo stesso è occasione di profonda riflessione, è il momento in cui prendono forma i pensieri, ostili o positivi secondo le volte, pensieri che rimangono impigliati in quella tela di ragno tessuta dalla nostra mente, in grado di catturare farfalle colorate, ma anche grossi calabroni, che ne mettono a dura prova la sua resistenza.

Il poeta, allora, si accontenta di parpagghiuna affumati e, come quella falena che si libra intorno alla candela, pur sapendo che questa la ucciderà, lui non smetterà mai di sperare, non smetterà mai di volare, anche a costo di bruciarsi le ali. No, lui vuole continuare a vedere… la luce!

Tanto ci sarebbe da scrivere sulle poesie di Vincenzo Aiello, perché tanti sono gli spunti che offrono, tante sono le sensazioni e le emozioni che regalano, ma poiché una postfazione si chiama così perché segue l’opera, non vorrei sembrarvi prolisso, visto che quando la leggerete, avrete già assaporato l’intensità di questi versi e avrete colto sicuramente altri aspetti, quindi, non mi rimane che sperare in una vostra condivisione.

Ringrazio l’amico Vincenzo per avermi dato l’onore e il piacere di essere presente in questa sua ultima fatica letteraria, con queste parole che portano il titolo di postfazione, ma rappresentano per me soltanto il “sentire” di un uomo, di un altro poeta forse, che si è sinceramente emozionato nel leggere le poesie di un grande autore come Aiello.

Giuseppe Gerbino

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