Una vera speranza
Prefazione di Salvatore Di Marco
Sono tantissimi i comuni della Sicilia, sia quelli di maggior notorietà che tra i più piccoli demograficamente, dove spicca la figura (o talvolta il personaggio) di qualche poeta dialettale del luogo, e ne diviene di fatto il cantore per fama, la voce che li rappresenta. Ed è naturale – quando col tempo non sopraggiunga l’oblio – che laddove le istituzioni pubbliche di quella determinata comunità civica ne abbiano la sensibilità, la buona disposizione, al poeta locale sia rivolta attenzione, siano dati perfino gratificanti segni di riconoscenza.
Al di là dei reali meriti letterari che la critica potrebbe indicare o no in casi del genere indipendentemente dal fatto che si tratti di meritevole poeta o no, il fenomeno così come si presenta oggi può essere un fatto di non secondario significato culturale, che nelle varie metropoli italiane, nelle grandi e medie città dell’isola, non è più possibile immaginare. Perciò le personalità della cultura, dell’arte, della poesia, difficilmente riescono a rendersi visibili senza di aver prima occupato ampi spazi mediatici. E poi ci sono anche alcuni comuni siciliani dove la presenza di poeti dialettali – una volta emersi dall’anonimato – può costituire “evento cittadino” capace di sopravvivere e inserirsi nella tradizione e nella storia locale. Potrei citare, a titolo d’esempio, cittadine come Castellammare del Golfo, Alcamo, Comiso, Noto, Acireale, e alcuni altri ancora. Ma, in questa occasione, è necessario che io – nell’area del palermitano – mi riferisca alla città di Bagheria che, almeno in questi ultimi cento anni, è stata ed è fertile terra di poeti e di artisti, molti dei quali hanno raggiunto straordinari livelli di notorietà. E tutti insieme fanno cultura e tradizione culturale nel medesimo tempo. Non è, dunque, casuale che non trascorra anno durante il quale non emerga un nuovo poeta dialettale, spesso pienamente integrato o integrabile – per stile di scrittura, concezione della funzione poetica, coerenza linguistica – nella “tradizione bagherese” o “bagariota”.
Ora, proprio in questo primo decennio del Duemila s’è visto emergere e imporsi – con un profilo letterario organico al sistema or ora richiamato – il poeta Vincenzo Aiello (Bagheria, 1957) il quale, dopo varie prove convalidate (collaudate si potrebbe dire) in numerosi premi letterari, incoraggiato dai consensi in quelle occasioni registrati, decide adesso di portare alle stampe la prima silloge dialettale che riunisce quasi tutti i componimenti – ma anche di inediti – che dai vari concorsi di poesia hanno ricevuto il crisma battesimale del favorevole giudizio critico.
Ovviamente il libro costituisce un soggetto letterario nuovo, con una propria identità costituita dall’insieme delle sue liriche, le quali – sul piano del merito – non sono una sommatoria dei vari trionfi da cui singolarmente sono reduci, motivo per cui non è scontato una riedizione di consensi maturati in momenti e situazioni diverse da questa. D’altra parte il prefatore – ruolo al quale sono chiamato in questa sede – non esercita la funzione critica che si legittima piuttosto in altra sede: ha invece il più modesto compito di dar conto delle caratteristiche della raccolta poetica al fine di introdurre ad essa il lettore. Sicchè la prima notazione che va messa in luce è che questo Cori ri petra è un libro che porta in sè tutti i segni dell’esordio, cioè l’emozione dell’entrata in scena, l’attesa ansiosa delle modalità di confronto che si svilupperanno, la riflessione su di una esperienza stilistica e di contenuto ancora ai primi passi. E, in tale senso, il nostro Vincenzo Aiello, nella sua Presentazione, è stato giustamente prodigo di informazioni sulla genesi dei suoi “primi passi”.
Una seconda considerazione riguarda la grande varietà dei temi su cui la silloge si sviluppa e si articola. Quei temi sono suggeriti, in primo luogo, dalla realtà naturale dell’ambiente circostante. Spicca su tutto il profilo del Monte Catalfano, che si pone come emblema, l’icona dell’amore che il nostro poeta coltiva per la nostra terra natia. Ma grande spazio della raccolta occupano le poesie dedicate al mondo degli affetti su cui si regge quel bene supremo dell’esistenza umana che è la famiglia.
Così leggiamo veri e propri canti d’amore per la figura della madre, del padre, della sposa, dei figli: e ogni lirica è un dono autentico di verità e di umanità. Perciò mi pare che sia proprio in queste pagine del libro di Aiello che si leggono i suoi versi più sinceri e più sentiti, quelli che ce ne rivelano l’animo, la sensibilità, le ragioni più intime di far poesia.
E, infine, la silloge si arricchisce di altri testi dedicati agli eventi del tempo e della storia così come scorre sotto gli occhi della nostra vita d’ogni giorno. Penso, ad esempio, alla poesia intitolata E sentu ‘i vuci dove rivive con accenti di commosso e solidale realismo, il dramma dei cavatori di Cusa.
Considerando poi gli aspetti più strettamente letterari di questa raccolta va notato subito che il “modello narrativo” del poeta è improntato alla chiarezza dell’espressione, e ciò rende viva e immediata la comunicazione. Non ci sono, infatti, gli artifizi letterari dei cesellatori del verso costruito “a tavolino”, ne s’avverte il condizionamento stilistico delle attuali scuole di scrittura poetica dialettale. Sicchè sotto questo aspetto il poeta Aiello si ricollega agevolmente alla “linea” bagherese, che sa tenere lontano dal dettato gli sperimentalismi e le forzature di chi alle ricerche formali si dedica per amor d’innovazione. Io credo che i modelli di riferimento di queste prove stilistiche di Aiello siano rintracciabili tra i poeti dialettali della sua città, con i quali condivide i sapori e gli umori di una storia di poesia fortemente radicata nella cultura bagherese, o come si potrebbe pure dire, nella “bagheresità” di questo appena tramontato Novecento.
Ed è a questo punto che si pone il tema del linguaggio che Aiello alimenta sulle sue pagine. Perciò anche il dialetto siciliano al quale egli attinge è quello vivo della sua gente, ne riflette i toni, il lessico, i suoni, la sintassi, ma pure le immagini, il respiro culturale, le radici popolari. E tutto ciò senza trascurare la capacità di dar luce ad una sintesi tutta propria, originale, della espressione poetica, delle ragioni interiori del far poesia. Direi concludendo, che Cori ri petra è un buon libro di poesia dialettale, un buon segno di schietta “bagheresità”, e che il nostro Vincenzo Aiello, per la poesia siciliana del nostro tempo, è una vera speranza.
Prof. Salvatore Di Marco
Palermo, 17 novembre 2009
Postfazione |di Giuseppe Bagnasco
Ogni volta che chiudiamo un libro, dopo averlo letto, ci restano dentro sensazioni, a volte suggestioni che si rapportano a giudizi ora positivi ora negativi. Per esprimere un parere su “Cori ri petra” di Vincenzo Aiello, non abbisogna averne terminato la lettura poiché dalla quasi totalità di tutte le liriche emerge una percezione chiara e inconfutabile di ciò che il poeta ha voluto trasmettere: i Valori. Valori che sono i valori che ebbero i nostri antichi progenitori quali certamente furono quelli appartenenti alla cultura dell’antica Roma. A leggere Seneca nelle “Lettere a Lucilio”, i consigli più frequenti (Lucilio era Procuratore in Sicilia) espressi solo quelli improntati a rettitudine, onestà, onore, amore per la patria e per la famiglia. E sono questi i punti su cui si sofferma il Nostro, che espone i suoi principi etici spesso a termine di specifici temi. Li riscontriamo in “L’onuri” nel verso che recita “l’onuri è ‘na cosa priziusa, chi surgi d’’i cori ‘i l’omini onesti”oppure in “U vuçiari d’’i to unni” dove parla “ma ca ‘u duviri d’omu mi porta a fari”. E poi quell’aura di nostalgico romanticismo appena velato, che si evince quando apre il suo “Caruseddu d’’i ricordi” o quando il poeta indirizza la sua voce verso l’amata consorte o i suoi figli o ricordando la madre che “cu amuri n’addivasti e cu mizzigghi” o il padre “patri ca chiacchiarava picca, ma aveva occhi ca parravanu cchiù assai di ‘na vucca”. Ma non solo questi sono i destinatari della sua anima schietta e sincera. Altri sono l’amata terra di Bagheria e la Sicilia e l’amico scomparso, fino al rapporto speciale che lui ebbe con il mare e con la natura in genere. Tutto questo è Vincenzo Aiello. Un poeta di lingua siciliana che rende onore alla autentica parlata dialettale che non senza una forzatura potremmo accostare a un “tardo volgare” di radici multi culturali essendo la lingua siciliana il risultato delle parole sicilianizzate di coloro che dominarono e dimorarono nell’isola. Vincenzo Aiello usa un lessico antico e lo fa con la consapevolezza di trasmettere e custodire l’anima della propria terra, giacchè l’anima della terra sta nella sua lingua. Per finire una riflessione sul titolo di questa raccolta “Cori ri petra” ispirato alla ferita inferta dall’uomo a Monte Catalfano usato come cava. Riflessione che ci riconduce ad una metafora dove l’Autore indica ed espone al pubblico ludibrio la rapacità e la cupidigia di chi non ha avuto scrupoli a fare addentare dal tritolo e dagli escavatori il costone del Monte, lacerando in modo irreparabile la pura linearità del suo rilievo. E il poeta conclude con una amara riflessione: “a nutri arresta sulu ‘u suffrimentu e ‘na picchidda ‘i casi ri cimentu”.